L'improvviso dilatarsi del tempo a nostra disposizione - a causa dei lockdown dovuti alla pandemia - ci ha permesso di riflettere di più su noi stessi, sul nostro lavoro e sulla visione che di noi hanno le persone che ci circondano.
Abbiamo guardato con occhi diversi ai nostri canali social, abbiamo ripreso in mano il nostro CV, abbiamo seguito tutti i webinar possibili per impiegare il tempo ma anche per aprirci a nuovi discorsi, nuovi ambiti, magari mai esplorati. E da tutto il movimento digitale, a tratti compulsivo, ne siamo usciti fuori con una convinzione: è il momento di fare personal branding.
Ma perché i lockdown hanno, in molti casi, restituito tra le varie e complesse conseguenze la smania di comunicarsi come persone e non più (o non solo) come azienda? Per 3 ragioni principali:
1. L'incertezza del futuro: il timore di perdere il proprio posto di lavoro, ha generato l'esigenza di crearsi un "paracadute", seppur digitale. Ci si è quindi convinti che, per farsi trovare pronti in caso di perdita dell'attuale impiego, fosse necessario buttarsi a capofitto sulla creazione di un proprio profilo professionale on line, dove mostrarsi competenti e competitivi;
2. La paura di restare indietro: all'improvviso è diventato urgente mettersi al passo con amici e colleghi, senza sapere bene come ma, soprattutto, perché. Di base, semplicemente, per non avere qualcosa in meno degli altri: ecco quindi aperture di profili linkedin, blog, canali YouTube per il solo gusto di esserci o, per meglio dire, di presidiare certi network;
3. Il ritratto di Dorian Gray: una minaccia, ahimé, ricorrente. Soprattutto sul web. Nell'illusione di essere interessanti, affascinanti e di avere qualcosa di creativo (quindi nuovo e utile) da dire, ci si è convinti di essere "giusti" per tutti i canali, tutti i network e tutte le piattaforme web esistenti. Di fatto, nella maggior parte dei casi, illudendosi.
La verità è un'altra. Per fortuna o purtroppo.
Il personal branding esiste sa sempre, più o meno da quando esiste il genere umano che tramite il passaparola, le strette di mano e lo scambio di biglietti da visita ha iniziato a tessere relazioni tra persone. Perché, se ci pensiamo bene, ogni relazione professionale non è altro che l'occasione per fare di se stessi un marchio e per dimostrarsi bravi nel venderlo. Quindi niente di nuovo ma, soprattutto, niente di diverso. È il passaparola, la stretta di mano e lo scambio di biglietti da visita ma ANCHE sul web (solo perché, causa pandemia, non può esistere anche dal vivo). La strategia da adottare nel personal branding è sicuramente più rilevante rispetto al passato perché, per avere risultati, è necessario pensare se stessi come prodotti commerciali e di conseguenza promuoverne la caratteristiche peculiari.
Fare personal branding non è stare (solo) su Linkedin. Non è pubblicare 100 video in cui raccontiamo la nostra vita personale. Non è avere un profilo su ogni social.
Era qualcosa di complesso prima della pandemia ed è qualcosa di molto complesso adesso, perché è venuta meno la fisicità e la relazione faccia a faccia, necessaria per l'affermazione professionale di se stessi.
L'imperativo, però, è sempre lo stesso: pruomuoversi solo se si ha qualcosa di interessante da dire. L'effetto boomerang è dietro l'angolo.