Come Mohammed Alì nella vecchia pubblicità Adidas, l’avvento del Coronavirus SARS-CoV-2, artefice della Pandemia Covid-19, sembra dirci che “Impossible is Nothing”, nulla è impossibile: neanche la Catastrofe, che la vita digitalizzata sembrava escludere imponendo l’idea di un futuro gestito dall’Intelligenza Artificiale e i suoi algoritmi. Gli stessi algoritmi che tracciano le nostre azioni trasformandoci in dati sensibili, svenduti in pacchetti di profilazioni commerciali nel data mining, a beneficio del “GAFAM” (Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft), che dalla pandemia è uscito triplicando le sue già cospicue fortune.
Benché sia solo una delle tante pandemie influenzali degli ultimi 50 anni, questa è infatti la prima pandemia “global” della storia: un processo che non infetta solo i corpi, ma penetra il sistema mediatico come “infodemia”, attenzione ossessiva e condivisa sul virus che mette tra parentesi tutto il resto. La sua specificità è nell’aver gettato una luce improvvisa sulle prospettive dell’Antropocene, l’era del dominio delle attività umane sulla Natura. Un’era di sfruttamento e distruzione guidata da un “bispensiero” di orwelliana memoria, dove l’etica scompare lasciando il posto alla sindrome ludopatica del giocatore che alza la posta del debito (nei confronti del pianeta devastato) convinto di potersi fermare una volta ottenuta l’improbabile vittoria. È quella “normalità” perversa l’origine di tutto: un sistema capitalistico che annaspa perché la forbice tra la ricchezza prodotta dalle tecnologie e le orde di persone che lavorano sulle materie prime che servono a realizzarle in condizioni schiavili e senza tutela, è ormai incolmabile.
Ogni pandemia ha stuzzicato il dormiente senso di responsabilità dei singoli: ma nel clima di “post-verità” dei social media, tra complottismi, negazionismi e trollizzazioni che sfornano ogni giorno “fake news”, tutto si complica. Sorvolando sull’impreparazione dei governi alla ricerca del Graal del vaccino che curerà i sintomi ma non l’origine del male, lo scompiglio è stato generato da un fattore diverso dall’indice RT: la mancanza di un “untore”. Per il più terribile dei virus che da 40 anni infesta il pianeta, l’HIV, la sessualità era sul banco degli imputati, e la scia di pregiudizi sulla comunità LGBTQ+ era il vaccino etico dei benpensanti: i 32 milioni di morti per AIDS sarebbero motivati dal “peccato contro natura”. Il Covid-19 ha reso evidente nella sua “democraticità” che non si basa sulla “classe” (come nelle pandemie nei paesi economicamente depressi) o sulla diversità (come l’HIV), che siamo tutti complici di un “peccato contro Natura” (con la maiuscola) ben più letale: quello, evidente nel comune nicodemismo digitale, per cui si professa sui social media la fede nell’impegno ambientalista e civile, ma nella vita privata si fa eccezione, giustificandosi con il cinismo individualista dell’ideologia capitalista. Il sistema è distruttivo e va cambiato, ma prima di tutto, c’è la sopravvivenza “whatever it takes” (per citare il Presidente del Consiglio Draghi). L’uomo tocca con mano l’inesistenza di un passaporto verso un futuro pulito come un display, contrapposto a un mondo ridotto a un’enorme discarica come quello di Wall-E.
L’esodo collettivo nella digitalità, ultima illusione di continuità con il vecchio mondo, ci ha ibernati trasformandoci in immagini-meme vaganti nella virtualità della onlife, dove perdiamo con la consistenza corporea la nostra relazionalità reale, in quei luoghi e tempi in cui è impossibile “mettersi in muto” o “disconnettere” la webcam. Iperprotetti e incomunicanti nelle quotidiane overdose di comunicazione virtuale, rischiamo di perdere la connessione con il senso dell’esistenza che prende forma nello sguardo e nei sensi degli altri, che ci colgono in modo spontaneo e imprevedibile. Un giorno non troppo lontano, la glaciazione spirituale finirà: ma dove ci porteranno le sue disciolte acque, come reagirà il nostro corpo di dinosauri riemersi alla vita dopo una blaterante ibernazione sotto la superficie digitale, è presto per dirlo. Certo, quando i ghiacci saranno sciolti, a nulla varrà aggrapparsi ai rottami del vecchio mondo trasportati dallo tsunami dell’impotenza globale.
È il pianeta che prende parola, che si ribella all’Antropocene, dimostrando che la Natura può riprendersi il maltolto in ogni momento, senza chiedere il permesso. Quali sono, dunque, le dickensiane “great expectations”? Che il “ritorno” alla vita non sia riprendere le pratiche dell’indifferenza, e induca una presa di coscienza nelle generazioni che stanno pagando il prezzo del folle cinismo delle precedenti. Che i “nativi digitali”, per cui la vita virtuale non è “altra” da quella reale, possano immaginare un mondo nuovo, affrancandosi dalle spire del Dio Profitto che anima il disastro dell’Antropocene. Che come piccoli, resilienti Wall-E, non sognino come Elon Musk, di colonizzare Marte, ma di restare sulla Terra, riscoprendone la possibile bellezza. Pensando, ma in positivo, che "Impossible in Nothing": perché il mondo (si) può cambiare.
Articolo pubblicato su Kamala Grandi Speranze - estate 2021